Prometeo ruba il fuoco - H. F. Füger |
Copri il tuo cielo, Giove,
col vapor delle nubi!
E la tua forza esercita,
come il fanciullo che svetta i cardi,
sulle querce e sui monti!
Ché nulla puoi tu
contro la mia terra,
contro questa capanna,
che non costruisti,
contro il mio focolare,
per la cui fiamma tu
mi porti invidia.
Io non conosco al mondo
nulla di più meschino di voi, o dèi.
Miseramente nutrite
d'oboli e preci
la vostra maestà
ed a stento vivreste,
se bimbi e mendichi
non fossero pieni
di stolta speranza.
Quando ero fanciullo
e mi sentivo perduto,
volgevo al sole gli occhi smarriti,
quasi vi fosse lassù
un orecchio che udisse il mio pianto,
un cuore come il mio
che avesse pietà dell'oppresso
Chi mi aiutò
contro la tracotanza dei Titani?
Chi mi salvò da morte,
da schiavitù?
Non hai tutto compiuto tu,
sacro ardente cuore?
E giovane e buono, ingannato,
il tuo fervore di gratitudine
rivolgevi a colui
che dormiva lassù?
Io renderti onore? E perché?
Hai mai lenito i dolori di me ch'ero afflitto?
Hai mai calmato le lacrime
di me ch'ero in angoscia?
Non mi fecero uomo
il tempo onnipotente
e l'eterno destino,
i miei e i tuoi padroni?
Credevi tu forse
che avrei odiato la vita,
che sarei fuggito nei deserti
perché non tutti i sogni
fiorirono della mia infanzia?
Io sto qui e creo uomini
a mia immagine e somiglianza, una stirpe simile a me,
fatta per soffrire e per piangere,
per godere e gioire
e non curarsi di te,
come me.
(trad. it. di Giuliano Baioni, in Goethe, Inni, Einaudi 1967)
La figura del titano imprigionato e incatenato per aver scatenato la furia di Zeus fu in tutta la storia della letteratura più volte ripresa, talvolta interpretandola, per volontà o per ingenuo fraintendimento, in modo assai differente da come venne originariamente concepita. Un esempio lampante è la rivisitazione quasi completa di matrice goethiana; come già scritto nell'articolo in cui parlavo del prometeo incatenato d Eschilo, i tratti di prometeo sono quelli di un immortale, di un celeste che nulla ha a che fare con coloro che vivono alla giornata se non per la questione (il dono del fuoco) per la quale il tribunale divino sentenziò per lui tale severa condanna. Un dio, certamente ribelle, ma un dio rimane come egli continuamente ricorda nell'amaro rimpianto di aver tradito i titani, suoi fratelli ed essere infine così ingiustamente e aspramente ripagato dal padre degli dei. E poi è filologicamente corretto notare come la ribellione prometeica non sia un aspetto positivo su cui Eschilo vuole soffermarsi con particolare attenzione. Nella sua indomita fierezza, infatti, egli pronuncia parole di fuoco, si fa portavoce di ardite affermazioni. Il risultato è piuttosto evidente: tutto ciò non fa che aggravare la sua già precaria situazione di prigioniero di un destino crudele, venendo dunque per atteggiamento sprezzante di sfida avviluppato nella spirale d'odio del signore dell'olimpo che proclama per lo sconfitto pene ancora maggiori. Nella terra sprofonda e il vinto viene sommerso da un oceano immenso di indicibile dolore e sofferenze orride. Sarebbe d'altra parte, stata una mossa, una presa di posizione troppo ardita per l'epoca e decisamente incoerente con il contesto storico da parte di Eschilo: non siamo in una Germania pre-romantica in cui un giovane poeta di Francoforte, sta per diventare uno dei massimi esponenti dello Sturm und Drang e uno dei più importanti poeti di tutta l'intera storia della letterature. L'esegesi goethiana della figura prometeica è dunque viziata da un'influenza eccessiva che il giovane spirito del Romanticismo esercita sul giovane valente scrittore, risultando, in conclusione, seppur nella sua sublime poesia, nel suo leggiadro lirismo, distorta e filologicamente errata. Ma è forse qui, proprio qui che risiede il genio di Goethe: la figura di prometeo non è l'immagine mitica rispolverata da un passato antico priva, tuttavia, di forza ed energia propria. Ogni suo gesto, ogni sua parola è, invece, l'espressione di una figura che può essere verosimilmente assimilata alla struttura di un eroe romantico. La ribellione arde nell'animo del titano ma non muta in pazzia, in quella follia così tanto pianta dal coro delle oceanine, causa del male di prometeo: è il fiero atto di rivolta di un eroe tragico destinato già in partenza a soccombere sotto i pesanti colpi di Ananke ma che con determinazione continua la sua coraggiosa lotta contro la tirannia cui le leggi prescrivono di obbedire. Perde l'alone d'immortalità di cui era invece ammanto il prometeo eschileo per scendere a livello dei mortali, farsi, infine, uno di loro e difendere con loro la più grande delle ricchezze mortali: la libertà dal giogo opprimente degli immortali. L'ode diventa quasi un grido disperato, forse di vendetta, contro quelle divinità che non diedero ascolto al suo giovanile pianto, al suo dolore sofferto. Per quanto il Prometeo goethiano si sforzi di ritrovare in se stesso quella scintilla di immortalità per scoprirsi, infine, figura demiurgica, plasmatrice di uomini
Io sto qui e creo uomini
a mia immagine e somiglianza, una stirpe simile a me
egli non vi riesce completamente, forse solo in parte, ma non del tutto. E' una figura molto umana, una creatura dalle sembianze mortali soggetta alle leggi del tempo
Quando ero fanciullo | […] Non mi fecero uomo
e dello spazio,
Ché nulla puoi tu
contro la mia terra,
contro questa capanna
un uomo, quasi, vibrante di passioni, paura e coraggio che, sapientemente riuscirà ad infondere in quella stirpe simile a lui, nella stirpe umana, nata dalla creta, identica in tutto al suo creatore
Io sto qui e creo uomini
a mia immagine e somiglianza, una stirpe simile a me,
fatta per soffrire e per piangere,
per godere e gioire
e non curarsi di te,
come me.
che con forza rivendica l'indipendenza della sua terra, dalla quale è stato ormai bandito il re degli dei.
E' possibile affermare che l'inno prometeico del giovane Goethe diventa voce di una “ribellione metafisica”, un allontanamento di una religione positiva incapace di dar all'ardente poeta quelle risposte che invece seppe dare la religione decisamente più filosofica e alta di stampo spinoziano, il cui conseguente avvicinamento venne, a tratti, delineato ne “I dolori del giovane Werther”.
L'eco di una religione per il “rozzo popolo”, che, cieco, si ciba di speranze e timori,
Io non conosco al mondo
nulla di più meschino di voi, o dèi.
Miseramente nutrite
d'oboli e preci
la vostra maestà
ed a stento vivreste,
se bimbi e mendichi
non fossero pieni
di stolta speranza.
trova una piena e compiuta espressione in questo leggiadro canto dal tono mitico e nostalgico.
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