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Prometeo Incatenato

Prometeo Incatenato - Nicolas-Sébastien Adam

Sentite invece che pena era la vita degli uomini: erano come dei bambini prima che io li rendessi intelligenti e capaci di ragionare. Non intendo criticarli. Voglio solo spiegarvi l'affetto che mi ha spinto a fare quei doni. All'inizio, avevano gli occhi e non erano capaci di vedere, sentivano senza capire, erano come le ombre di un sogno: vivevano tutta la vita a casa, nella confusione più completa.

Alto e imponente si leva quel grido lontano, antico, quasi già divenuto mitico, di un Titano, di un immortale ribelle che trasgredì le leggi severe del cielo. E' la tragica condizione dell'esistenza di Prometeo, di colui che rubò il fuoco per donarlo agli uomini. 


Il suo è un lamento straziante, un'agonia perenne compatita e pianta da tutti coloro che si avvicinano alla rocca cui egli è incatenato per l'eternità, imprigionato dalle divine e indistruttibili catene di Efesto. E qui, ai confini del mondo, nella lontana Scizia deve scontare la prigionia per il volere del padre degli dei, Zeus. Prometeo nel suo urlo di dolore si scaglia con veemenza contro la crudeltà del nuovo signore dell'Olimpo, contro quella sua muta severità che sembra concretizzarsi in un luogo aspro, remoto e indifferente alle sofferenze di colui che cercò di aiutare “coloro che vivono alla giornata”. Il motivo principale riscontrabile in tutta l'opera è il tema politico: il “Prometeo Incatenato” di Eschilo è una felice riproduzione dei meccanismi politici che animavano la vita nella polis. Il quadro che riesce ad emergere dai sofferti versi pronunciati sia dal protagonista sia dai personaggi che lo incontrano è drammatico: una lotta eterna tra fazioni politiche avverse in una perpetua guerra per il potere (si pensi alle generazioni di dei: Urano, Crono e Zeus) che porta alla dissoluzione dei legami di fratellanza e di amicizia, di tradimento nei confronti della propria eteria (Prometeo non essendo stato ascoltato dai Titani, suoi fratelli, prende la difficile decisione di aiutare colui che salirà come vincitore sul monte degli dei), ad un inevitabile spargimento di sangue, anche “paterno” (Crono è, per esempio, padre di Zeus). In un continuo affermarsi a livello politico di nuove fazioni, la spettrale ombra di un ennesimo complotto ordito a danno della nuova classe dirigente costituitasi attanaglia i nuovi padroni (e la profezia pronunciata da Prometeo secondo cui delle nozze pericolose saranno la rovina stessa di Zeus: qualcuno più forte arriverà e conquisterà il trono, come egli un tempo aveva fatto con suo padre) i quali sono, necessariamente, spinti verso una politica repressiva e punitiva di ogni evento che, anche solo potenzialmente, si potrebbe rivelare fatale per l'equilibrio appena raggiunto. Le condanne si riverseranno implacabili anche con gli alleati o chi favorì la costituzione di tale nuovo regime (la punizione che Prometeo deve scontare). Ma ecco che in questo complesso e ardito di gioco di alleanze e di rivolgimenti politici una tattica sembra essere efficace, almeno solo apparentemente: l'arte dialettica e la capacità di mediazione tra le forze congiunte naturalmente con una valida capacità valutativa delle situazioni e delle possibilità, con i rischi ad esse connessi. E' il caso di Oceano, amico di Prometeo, il quale si offre con molta buona volontà di pattuire la dissoluzione della pena o, almeno, uno sconto della stessa con Zeus: ma è meglio, come gli ricorda il Titano imprigionato, non mettersi contro il signore degli dei: la pena stessa che l'eroe deve scontare è, in effetti, di monito e insegnamento per Oceano. Talvolta però non si incorre nelle sventure per proprie colpe (come accadde a Prometeo e sarebbe potuto accadere al padre delle Oceanine, che, riunite nel Coro, soffrono e piangono il destino crudele che piomba sul capo del figlio di Themis): i capricci del potere possono distruggere l'esistenza stessa, renderla una schiavitù in terra senza aver commesso alcuno sbaglio. Entra, dunque, in scena Io, figura disgraziata e pietosa, la cui vita è mutata in una dannazione mortale, nel suo continuo errare, fuggire dalle angosce. Nel suo pronunciare versi e frasi brevi, quasi sconnesse, come per sottolineare l'intermittenza perenne del dolore, delle fitte acute che penetrano nella molle carne fino nelle più recondite profondità, si accumula una sublime carica patetica: le parole si caricano di una forza espressiva nuova, vibrano così intensamente di pure e primordiali sensazioni di dolore e sofferenza che diventano entità autonome perfette, specchi dei movimenti dell'animo umano. Nel finale nulla valgono i consigli di Ermes, “il galoppino degli dei”, il quale esorta il prigioniero a rivelare chiaramente cosa dica la profezia ermeticamente accennata. E colui che donò il fuoco ai mortali, da cui scaturirono, come scintille, “tutte le tecniche, tutte le arti”, colui che li rese “intelligenti e capaci di ragionare”, che li condusse ad una vita diversa dall'esistenza bestiale che prima conducevano, che vivevano “a caso, nella confusione più completa”, viene così inghiottito dalla terra, mentre un fragoroso rimbombo cupo lo avvolge completamente.


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