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Le ultime lettere di Jacopo Ortis

Un uomo e una donna davanti alla luna - C. D. Friedrich
Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia. Il mio nome è nella lista di proscrizione, lo so: ma vuoi tu ch’io per salvarmi da chi m’opprime mi commetta a chi mi ha tradito? Consola mia madre: vinto dalle sue lagrime le ho obbedito, e ho lasciato Venezia per evitare le prime persecuzioni, e le più feroci. Or dovrò io abbandonare anche questa mia solitudine antica, dove, senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese, posso ancora sperare qualche giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo; quanti sono dunque gli sventurati? E noi, purtroppo, noi stessi italiani ci laviamo le mani nel sangue degl’italiani. Per me segua che può. Poiché ho disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra le braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da’ pochi uomini, compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno su la terra de’ miei padri.

Dal tutto al nulla. Qui, in queste parole, si potrebbe dire che si concentra il nucleo pulsante e vivificante dell'opera foscoliana, “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”. 

Attraverso la lettura delle diverse epistole, in un susseguirsi ritmato e fonicamente poetico di frasi e parole, scelte tutte con puntuale cura dal Foscolo per impreziosire uno stile che viene definito “prosa poetica”, si può comprendere la vera anima di Jacopo Ortis, scandagliare, quindi, i remoti meandri del suo io fino a scoprire la sublime complessità psicologica di questo eroe romantico. Innanzitutto, i temi fondamentali sono quello amoroso e quello politico: è doveroso riconoscere che, pur nella loro diversità, scorgibile ad un'immediata e superficiale occhiata, nonostante l'apparente inconciliabilità, tali forze, agitandosi turbolenti nell'animo di Ortis, non rivelano, alla fine, quell'incoerenza strutturale, quel binomio antitetico cui si potrebbe pensare ponendo lo sguardo su due così divergenti passioni. Politica e amore, dunque, non si scontrano annullandosi vicendevolmente: anzi, costituiscono due binari paralleli su cui la vita si fa strada, in un potente slancio eroico. E si arriva alla distruzione del tutto, con il conseguente e necessario trionfo del nulla cosmico. Pur distanti temporalmente, e il trattato di Campoformio e la rivelazione dell'impossibilità del realizzarsi dell'amore con Teresa seguono, entrambi, in una funerea sonata che prelude al tragico epilogo, il loro corso di morte, di declino finale culminante quando le speranze si disintegrano tutte, facendo così giungere l'Ortis ad un angoscioso quanto consapevole Nichilismo. Ma se i fallimenti politici e amorosi, in un primo momento, segnano il rinforzarsi delle stesse passioni, lasciando così percepire al lettore la tensione ortisiana ad un mondo arcadico e perfetto, di cui cela alla propria coscienza quasi volontariamente, in un atto di folle speranza, la verità, la dura verità di una chimerica realtà, che tale per sempre rimarrà, sarà il suicidio (principale tema dell'opera) a segnare la vittoria della morte sulla vita, del nulla sul tutto. Abbattute le difese erette nella disperazione, quelle mura che gli occultarono, avvolsero in un nembo denso di irrealtà la realtà nella sua totale negatività, la strada sembra spianata al compiersi di quel destino macabro insito, fin dal primo giorno, nella propria vita, quell'esistenza per la morte. In fin dei conti, dunque, il vivere di ortis non è nient'altro che un prepararsi per il destino supremo, crudele e feroce, immeritato ma necessario, di cui vaghi messaggeri sono le disfatte amorose e la sconfitta politica. E' il viaggio, quindi, dall'essere al non essere, dalla leggiadra Arcadia al Nichilismo più profondo, in cui l'infrangersi di ogni desiderio contro le scogliere dell'amara realtà dei fatti, è tappa fondamentale nella comprensione dell'essenza più profonda della propria esistenza, essenza prima per cui il suicidio viene a configurarsi come supremo momento epifanico della stessa (e l'ombra incombente della morte il preludio allo stesso).
Morte quindi della carne, ma non dello spirito, naturalmente, dell'animo di un poeta che ama specchiarsi nel lago della letteratura tedesca e assecondare il riverbero wertheriano che riluce scintillante.
Il suicidio quindi diventa l'unica via di salvezza, l'unica possibilità per Ortis di evadere da un'esistenza insoddisfacente. O meglio, la morte volontaria per propria mano riesce, nel culmine patetico della prosa poetica foscoliana, a diventare la sintesi perfetta per una vita costruita interamente su schemi di tesi e antitesi, poiché tertium non datur: l'ultimo passo, dunque, del processo dialettico così infinitamente e intimamente legato alla genesi del suo essere. Benché, infatti, in vita tentò sempre di sfuggire ad ogni sistema che implicasse regole e leggi che potessero imbrigliare la propria personalità, mai vi riuscì completamente: ne è esempio la legge universale della violenza umana, cui nemmeno il protagonista riesce a sottrarsi (contro gli altri: il contadino; contro se stesso: il suicidio). E' interessante notare, in ultima analisi, la concezione ortisiana del mondo che oltre ad essere costitutivamente violento, è dominato anche dalla logica del profitto e del guadagno: amore e sentimento politico trovano un ostacolo insormontabile di fronte al cospetto della meschinità di Napoleone (che cedette il Veneto agli Austriaci per convenienza) e quella del padre di Teresa (il quale preferisce la sicurezza e la stabilità familiare piuttosto che la felicità della figlia).

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