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A Zacinto


Il sorgere della luna sul mare - C. D. Friederich

Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del greco mar da cui vergine nacque
Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l'inclito verso di colui che l'acque
cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.

 
E' questo il canto foscoliano della lontananza dalla propria terra natia, di quella terra avvolta in un'aura mitica, la sua Zacinto, per il poeta un'Itaca irraggiungibile.
A livello sintattico il sonetto si compone di tre periodi assolutamente eterogenei nella loro lunghezza. Il primo infatti occupa le prime tre strofe e presenta un carattere particolarmente enfatico: ciò viene magistralmente marcato dall'utilizzo dell'enjambents, atto a realizzare un senso di attesa e tensione drammatica, che evoca sul piano concettuale l'infinito errare dell'eroe omerico nel disperato tentativo di approdare alla “sua petrosa Itaca”, dalla posizione di vocativi e dei soggetti, quasi sempre posposti, conferendo così al componimento inoltre una leggiadra solennità. E', invece, nell'ultima strofa che si condensano il secondo e terzo periodo: il lungo peregrinare di Ulisse cui gli dei concessero il ritorno in patria, l'ideale viaggio del poeta verso la terra “ove il corpo fanciulletto giacque” si scontra con la dura realtà dell'impossibilità di rivedere la propria casa, giacché, un giorno, la sua tomba non verrà bagnata dalle lacrime e dal pianto di chi rimane, poiché il destino lo ha condannato ad una morte in terra straniera.
La lirica inizia con un “né più mai”: il tono forte, deciso, fatale, insomma, accentua la condizione di esule del poeta che non può e non potrà in alcun modo tornare. Con il “” la poesia sembra divenire l'ideale proseguimento di un flusso di pensieri e di dolori, che sconvolgono la mente dell'artista.
Il primo tema che anima il componimento è quello del ritorno: ne consegue un necessario parallelismo con l'eroe per eccellenza, Ulisse, celebrato qui romanticamente, quindi non come colui che con l'inganno distrusse Ilio, bensì come l'uomo che, dopo infinite peregrinazioni, riuscì a rivedere la propria isola, l'amata e tanto desiderata Itaca. Un parallelismo viziato però da un'antinomia piuttosto evidente: se Ulisse è l'eroe che tanto ha vagato ma cui, alla fine, il fato concesse il ritorno, così non è per il Foscolo, che è sì lontano dalla propria patria, ma il destino ha serbato per lui un diverso epilogo (“a noi il fato prescrisse illacrimata sepoltura”). Se Ulisse dunque riassume in sé le caratteristiche di un eroe classico, nel suo essere, cioè, in armonia con le forze del destino e del mondo, Foscolo invece è l'archetipo dell'eroe romantico, in continua lotta con il fato, cui esce, inevitabilmente, sconfitto e distrutto, in un sublime slancio titanico. Il ritorno è, quindi, concepito dal poeta solo attraverso il canto poiché altro non avrà la sua terra materna.
Si arriva dunque al secondo motivo che si staglia sullo sfondo tragico della lirica: Zacinto è descritta, in un'ottica mitica e quasi arcadica, come quel luogo reso fecondo da Venere, nata dalla spuma di quel mare greco in cui si riflettono le sponde dell'isola. Venere è, d'altra parte, dea dell'amore e quindi della vita, è quella forza rigeneratrice e vivificatrice di ogni cosa, che rappresenta, quindi, in ultima analisi, quel ciclo di vita e morte nel suo eterno divenire. La dea d'altra parte nasce proprio dall'acqua, che è sì emblema del sorgere della vita, ma è anche simbolo della disgregazione materiale, della morte e, quindi, di quella condizione esistenziale che è il sonno della coscienza, in quel limbo tra il nulla e il tutto, tra la vita e la morte. In questo alternarsi di suggestioni, si eleva il tema della maternità: così, in un trionfo di collegamenti ed equivalenze, sembra che Diamantina Spathis, Zacinto e Venere diventino un tutto che potrebbe essere riassunta nell'immagine del “Grembo materno”, come suggerisce la critica del Pagliani.
Vi è poi un'ultima analogia possibile, questa volta tra il poeta e Omero: entrambi sono la figura del poeta. E' d'altronde vero però che, anche qui, l'accostamento di figura così diverse produce inevitabilmente un implicito contrasto. D'altra parte Omero è il cantore ellenico che, attraverso il suo poetare, rende grande l'immenso palcoscenico di eroi e dei, di uomini e titani in una terra mitica e svanita ormai tra le ombre del passato; Foscolo, invece, non è nient'altro che l'artista romantico che non riesce a comprendere il suo mondo, si trova in contrasto con esso, in una eterna lotta nel tentativo di comprenderne lo Spirito, il “Geist”: sconfitto, battuto capisce dunque l'irraggiungibilità di quell'ideale che andava cercando (l'immagine dunque si concreta nella lontananza dell'isola). Ora non potrà che trovare pace rifugiandosi non in un Medioevo cristiano come fece Novalis, ma in quel mondo perfetto e magnificamente antico che è l'Ellade.

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